Day 12: the Elephanta Caves

7 novembre:
Dopo la lunga colazione in hotel perché per ottenere un caffé ci voleva da un quarto d’ora ai venti minuti buoni, divisi in 3 macchine siamo andati nella storica Bombay passando per il nuovo ponte “Bandra – Worli Sea Link” che ci ha fatto raggiungere la zona turistica dove c’è il Gate of India; mentre eravamo in macchina siamo stati fermati da un poliziotto che ci ha multato perché lì è proibito fare foto e video per strada.
ponte
Il Gate of India è in una piazza recintata sul lungo mare e si affaccia sull’Oceano Indiano, accessibile solo dopo essere passati sotto un metal-detector e un controllo dei borse e zaini; attorno alla zona recintata c’è un mercato improvvisato che brulica di gente e di mendicanti, ma a fare da sfondo alla porta ci sono il nuovo ed il vecchio Taj Mahal Palace.
Da sotto il Gate of India partono i traghetti per andare alle “Cave di Elephanta”, caverne scavate nella roccia circa 2 secoli a.C. da buddisti, raggiungibili in una comoda ora di traversata sul nero, e non troppo profumato, Oceano Indiano; scesi dal traghetto abbiamo camminato sul lungo pontile in muratura, ma volendo potevamo scegliere di usare il trenino che collega il molo all’ingresso del sito archeologico.
Le caverne, situate in cima alla montagna che costituisce l’isola, sono raggiungibili da una lunga scalinata (mamma mia che fatica e che caldo!) lungo la quale c’è un mercato permanente dove si può comprare di tutto; l’isola è popolata da una vasta colina di scimmie che, ormai, non ha più paura dell’uomo, anzi, non perde occasione per avvicinarsi e rubargli gli avanzi.
Le cinque caverne erano nate come luogo di rifugio e meditazione per i buddisti stanchi del caos di Mumbai, che già era invivibile prima dell’avvento dell’automobile, e la loro conformazione e le statue presenti lo testimoniano. Tutto ciò che è visibile è stato scolpito dall’unico enorme blocco di roccia della montagna dai buddisti, poi soppiantati dagli induisti secoli dopo. L’origine delle statue buddiste e induiste si può comprendere solo guardandone la forma degli occhi: i buddisti li rappresentano grandi e leggermente a mandorla, mentre gli induisti li fanno piccoli e a palla; proprioper questo motivo molte delle statue sono rovinate all’altezza degli occhi così che anche i fedeli induisti possano pregarle non potendo distinguere i tratti caratteristici delle statue buddiste; anche gli inglesi non hanno resistito e hanno contribuito anche loro allo splendore delle Cave di Elephanta: hanno inciso numeri sulla pietra nel vano tentativo di catalogare le opere d’arte e le caverne stesse.
Accompagnati dalle scimmie per tutta la visita abbiamo goduto della bellezza paesaggistica del luogo, dove, per una volta non eravamo gli unici bianchi: due nord-europei erano facilmente distinguibili dalla massa di turisti locali; dopo pranzo shopping alle bancarelle e, nonostante qualcuno (Mirco e l’Elena) volesse portarsi via una scimmia nello zainetto, siamo riusciti ad imbarcarci senza infrangere nessuna legge: le scimmie sono rimaste tutte, più o meno vive, sull’isola di Elephanta.
Tornati sulla terra ferma dopo aver fotografato un sottomarino, in barba al divieto della marina indiana di far foto in quel tratto di mare, siamo andati a visitare la moschea di Haji Ali, costruita su un’isoletta accanto a Mumbai e collegata alla città da un ponte senza i muri di contenimento laterali, così che con l’alta marea sia irraggiungibile: complimentoni!
I più temerari si sono tolti le scarpe e sono andati a visitare l’interno della moschea, mentre gli altri sono rimasti nel cortile a fare da guardia alle scarpe; camminare scalzi o in calzini non è bastato per farci guadagnare l’ingresso nella moschea: siamo stati ammessi nella zona sacra solo con il capo coperto, ma in due zona separate per sesso, poiché solo gli uomini possono avvicinarsi all’altare posto sotto un favoloso e scintillante lampadario in cristallo che si rifletteva sui mosaici dorati alle pareti. Noi donne, esseri impuri e inferiori, abbiamo potuto solo osservare da una stanzetta laterale la processione di uomini che pregava intorno all’altare e anche per poco: una specie di imam di benediceva con una scopetta di rami e poi ti faceva cenno di spostarti per far passare le altre fedeli. Vi lascio immaginare gli accidenti che gli abbiamo tirato dopo tutta la fatica di togliersi le scarpe, camminare in mezzo allo sporco, coprirci la testa e infilarci nella folla.
Tornati alle macchine il programma prevedeva albergo, cena e meritato riposo (per chi più e per chi meno..)!